DISOCCUPAZIONE GIOVANILE: soluzioni o palliativi?

Quella dei disoccupati resta ad oggi una triste realtà del nostro Paese. Le implicazioni della disoccupazione non riguardano semplicemente le, seppur drammatiche, conseguenze a livello socio- economico ma hanno ripercussioni anche e soprattutto sulla sfera individuale se si considera che il lavoro è inteso come parte sostanziale della definizione di sé e tende spesso a rappresentare in toto la nostra identità. E’ quindi l’equazione “mancanza di un impiego = perdita della propria dimensione in relazione al mondo” uno dei drammi che non emerge dai dati a cui spesso ci appelliamo per accusare o semplicemente motivare e giustificare delle dinamiche che riguardano le nostre realtà.
Se di dati si vuol parlare, però, è proprio uno studio recente a rilevare quanto, a livello europeo, la disoccupazione giovanile nel sud Europa resti ancora critica. Secondo lo studio, infatti, la problematica è particolarmente evidente nell’area Euro e a presentare una situazione più preoccupante dell’ Italia restano soltanto Grecia e Spagna.
Sorge, dunque, spontaneo un interrogativo: come mai è proprio la generazione che ha studiato di più nella storia a non trovare un impiego? Ci si potrebbe rispondere che forse la chiave di volta risieda esattamente nel fatto che i nostri giovani posticipano il loro ingresso nel mercato del lavoro per portare a termine i propri percorsi di formazione. E allora: è giusto far passare l’idea che il tempo speso a conseguire, ad esempio, una laurea in realtà sia tempo sprecato?
E siccome un paese civile non può in modo alcuno lasciar trapelare il messaggio che sia proprio la tempistica di formazione personale e professionale a rallentare l’ingresso per un giovane nel mondo del lavoro, non resta che interrogarsi sul perché anche un ragazzo professionalmente formato riscontri poi oggettive difficoltà a trovare un lavoro.
Una possibile risposta potrebbe essere disvelata dalla sensibile distanza riscontrata tra competenza acquisita e richiesta siccome per le aziende la formazione erogata ai giovani è spesso risultata essere troppo teorica e poco pratica e quindi poco conforme all’esigenza di produttività immediata. Si tratterebbe in questo caso, quindi, dell’entità della formazione in sé, poco lungimirante e poco pragmatica, ad essere il centro nodale del problema. Si è lavorato in questo senso, senza dubbio, quando si è pensato ai progetti ambiziosi di Garanzia Giovani e dell’ Alternanza scuola-lavoro, come punti di giunzione tra formazione e realtà lavorativa, progetti che però non hanno ottenuto i riscontri sperati. Per Garanzia Giovani, infatti, sono stati stanziati 1,5 miliardi di euro eppure il programma stenta ancora a prendere piede. Stessa sorte sembra presagirsi per il progetto Alternanza scuola-lavoro, che guarda alla scuola come soggetto e processo essenziale per la formazione di nuove competenze e che mira a combattere la disoccupazione oltre a creare, negli studenti, la consapevolezza e la base delle scelte future che si presenteranno loro. Nonostante le premesse e le intenzioni sembrassero altisonanti ed accattivanti, anche in questo caso l’esito è stato inconcludente in quanto, sebbene il programma sia stato disposto dal 2015 e reso obbligatorio per più classi solo a partire dal 2016, al primo anno di attuazione soltanto uno studente su tre ha avuto un reale contatto con le aziende.
Un ulteriore capo di imputazione è sicuramente rivolto all’estrema rigidità delle regole del mercato del lavoro che rende poco conveniente assumere e licenziare. Certamente la disciplina dell’apprendistato come punto mediazione tra formazione e entrata nel mondo del lavoro poteva rappresentare una risoluzione che teneva conto del gap esistente tra la fine del percorso formativo e l’attività lavorativa, eppure è risultata, in parte, essere un’ulteriore “soluzione-tampone” che ha certamente facilitato l’acquisizione di quella esperienza tanto richiesta in sede di colloqui, eppure non è riuscita a garantire un inserimento a lungo termine dei giovani, se si considera che l’apprendistato è ancora limitato e inattuabile in alcuni settori come ad esempio quello della Pubblica Amministrazione.
Esistono poi delle considerazioni geografiche da fare, in quanto la disoccupazione giovanile italiana è sempre maggiore nelle regioni meridionali; per un giovane del Mezzogiorno, infatti, è quasi impensabile il sogno di affermarsi professionalmente nel posto in cui è nato in quanto si trova dinanzi ad una paradossale “libera scelta indotta” che lo porta, quasi sempre e necessariamente, lontano dai propri affetti; e infine non si può non considerare quella pressione anagrafica per cui, qualora il primo impiego non porti ad un rapporto duraturo e continuativo, il rischio di rimanere imbrigliati in una serie senza fine di lavori precari, di contratti a termine o contratti indeterminati poco vincolanti è molto alto.
Generalmente, allora, nello scoramento più totale, le scelte che si profilano agli occhi di un giovane che cerca di entrare nel mondo del lavoro rimangono di due tipi: o ci si assoggetta a malincuore al diktat “prendere o lasciare” che comporta compensi talvolta ridicoli a fronte di garanzie pressoché inesistenti, oppure si opta per una soluzione “oltre confine”, generando la così chiamata “fuga di cervelli”, ossia talenti che in un paese anti-meritocratico come l’Italia hanno deciso di emigrare e trovare approvazione (declinata, giustamente, secondo compenso salariale dignitoso) all’estero. Tale questione, inutile dirlo, comporta però una perdita di un potenziale umano- intellettivo e professionale- consistente, il quale potrebbe e dovrebbe rappresentare il fiore all’occhiello del nostro Paese. Fatta tale premessa, quindi, lascia perplessi l’idea promossa proprio in questi giorni dal Sottosegretario al Lavoro e alle Politiche Sociali, Bobba, di promuovere una sorta di “Erasmus dell’apprendistato”, ovviamente non retribuito, all’estero. Questa sarebbe un’ottima idea qualora la mobilità dei giovani rappresentasse l’opportunità di crescere a livello professionale per poi spendere il know how acquisito – una volta tornati in Italia – nel Paese e per il Paese, scenario che sappiamo sin da ora essere poco plausibile e che trasforma, quindi, l’intera questione in una scelta poco saggia e per nulla lungimirante se si vuole guardare ai giovani come investimento e risorsa su cui puntare.
Viste le cause e i tentativi di risanare un sistema che, chiaramente, non funziona, le conclusioni da trarre restano poche. Vi è, in primo luogo, l’urgenza di politiche attive che si facciano non solo promotrici ma anche e soprattutto garanti del processo di inclusione dei giovani nel mondo del lavoro e della loro attivazione sociale e che non si esauriscano nella creazione di nuovi precari e di nuovi posti effimeri. Ampliare il panorama applicativo dell’apprendistato, poi, sarebbe già un buon punto di partenza. E’ poi indubbia la necessità di riconsiderare l’attuale norma che regolamenta il lavoro e sposare l’ ottica di provvedimenti capaci di ottemperare ai bisogni di una società che, ricordiamolo, è in continua evoluzione.
Ciò che però dovrebbe rimanere una costante in prospettiva del cambiamento non può non essere l’importanza del valore della meritocrazia, che deve essere nel modo più assoluto la conditio sine qua non attraverso cui promuovere le menti, lasciando che esse emergano e operino per un Paese che non solo vuole essere lungimirante ma che, invece, ambisce all’eccellenza.
Ripensare a nuove soluzioni appare dunque essere un obbligo morale per un Paese civile, perché esso guardi al futuro e, non meno importante, perché si impegni nella salvaguardia della dignità dei giovani italiani, ricchezza potenziale del domani.

Roma, 15 Maggio
Il Segretario Generale CISA
Vincenzo Florio

IN ARCHIVIO IL VERBALE UNICO DI ACCERTAMENTO

La circolare n.120 del 13 aprile emessa dall’Ispettorato Nazionale del lavoro rielabora la procedura di verbalizzazione degli accertamenti ispettivi, archiviando il verbale unico di accertamento in materia di lavoro e previdenziale previsto dall’articolo 13 del d.lgs. 124/2004.
Nella suddetta circolare, conseguente al protocollo d’intesa sottoscritto con l’Istituto Nazionale Previdenza Sociale il 21 febbraio 2017 (in cui viene disciplinata la collaborazione tra INL e l’INPS in materia di vigilanza ispettiva riguardo la contribuzione obbligatoria),vengono definite le linee guida riguardo l’organizzazione e la programmazione dell’attività ispettiva a livello nazionale e regionale.
Nella circolare viene indicata la composizione delle Commissioni Regionali, costituite da quattro rappresentati dell’ Inl e altrettanti dell’INPS, che sono tenute a riunirsi due volte al mese per programmare ed organizzare l’attività ispettiva.
Per quanto concerne gli accertamenti che si propongono di verificare l’assolvimento degli obblighi di contribuzione previdenziale, la circolare individua tre fonti informative:
– Soggetti contribuenti da verificare attraverso sistemi di comunicazione interni all’INPS, che comprendono anche i comportamenti ascrivibili al reato di danno allo Stato e all’ INPS;
– Settori produttivi individuati dalla Commissione centrale ed, eventualmente, attuati dalle Commissioni Regionali;
– Settori produttivi individuati dalla commissione regionale su segnalazione di amministrazioni pubbliche, organismi investigativi e di controllo, organizzazioni di rappresentanza di lavoratori o di datori di lavoro.

Altra novità sostanziale riguarda la nuova disciplina relativa alla procedura di verbalizzazione e notificazione degli accertamenti (sia di natura lavoristica che previdenziale e assicurativa). In merito a ciò, si evidenzia l’applicazione della “verbalizzazione unica” alla sola materia sanzionatoria amministrativa e non già alla disciplina contributiva e dei premi assicurativi non dichiarati o dell’evasione contributiva. Resta comunque la possibilità per l’ispettore di notificare verbali distinti, qualora la notificazione di un unico verbale non sia possibile per ragioni logistiche in merito ad accertamenti che mirino alla verifica di aspetti di natura sia lavoristica che assicurativa e previdenziale, considerata soprattutto la diversa tempistica che tali procedure di accertamento e destinatari dei suddetti verbali richiedono.

INTERPELLI: QUESITI SENZA RISPOSTA

Il diritto di interpello è un istituto regolamentato dall’articolo 21 della legge n. 143/1991 e rielaborato a seguito della legge del 27 luglio 2000, n. 212 (che sancisce disposizioni in materia di Statuto di diritti del contribuente).
L’interpello rappresenta la possibilità per il contribuente di chiedere un parere all’Amministrazione Finanziaria, mediante un’istanza, prima di attuare uno specifico comportamento qualora vi siano incertezze circa l’applicazione della normativa tributaria vigente.
Nel tempo il contribuente ( datore di lavoro, azienda o operatori del settore) ha potuto contare sulle risposte celeri da parte dell’ufficio preposto in materia di interpello. Con il Jobs act, però, la situazione è cambiata: l’istituzione dell’Ispettorato nazionale del lavoro ( verso cui sono stati trasferiti 5.756 dipendenti del dicastero), la soppressione della Direzione generale per l’attività ispettiva (a cui venivano in passato sottoposte le istanze di interpello), e la modifica dell’art.9 del d.lgs. 124/2004 hanno comportato, a partire dal 2017, la temporanea assenza di un ufficio competente incaricato della gestione delle istanze di interpello.
In linea generale gli interpelli dovranno essere inoltrati al Ministero del Lavoro, scelta motivata dalla volontà di garantire una maggiore regolamentazione dei rapporti di lavoro e non di una mera verifica degli stessi (appannaggio esclusivo dell’Ispettorato); è per tale motivo che la gestione degli interpelli sarà demandata alla Direzione generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali (che andrà a sostituire l’attuale Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali).
Malgrado la chiarezza dei prospetti logistici futuri, ad oggi l’iter organizzativo-normativo è ancora in corso di definizione; in attesa dell’emanazione del decreto del presidente della Repubblica che ponga in essere, finalmente, la nuova gestione degli interpelli, il Ministero si propone di emanare un provvedimento che affidi nell’immediato la gestione degli interpelli alla nuova Direzione generale (anticipando così l’assetto futuro dal punto di vista pragmatico) e che preveda inoltre il supporto dell’Ispettorato nella gestione dell’istituto (supporto che a sua volta, però, dovrà essere disciplinato da un ulteriore provvedimento).
In buona sostanza, dunque, i contribuenti dovranno aspettare ben tre provvedimenti, i cui tempi di emanazione restano tuttora incerti, mentre appare chiara l’urgenza di una soluzione immediata che permetta ai contribuenti di beneficiare di un diritto di cui essi godono ma che, ad oggi, risulta essere inapplicabile nella pratica.

VOUCHER:

ARRIVA IL LAVORO A CHIAMATA SEMPLIFICATO.

 

Il voucher nasce con l’intento di regolarizzare la retribuzione del lavoro occasionale, favorendo la regolarizzazione di mansioni troppo spesso legate al lavoro sommerso. Il campo di applicazione dei buoni lavoro al momento della loro comparsa (avvenuta nel 2003) era limitato, ma ha conosciuto nel tempo un consistente ampliamento (più precisamente con la legge Fornero del 2012) che ha indiscutibilmente portato lo strumento di retribuzione dei voucher ad un utilizzo sempre maggiore e spesso distorto: se inizialmente i voucher erano utilizzati esclusivamente per difendere le categorie di lavoratori considerati più deboli, si è finito con l’impiegare il sistema voucher in sostituzione ai rapporti di lavoro ordinari.

Tale uso distorto e talvolta smodato è stato, difatti, una delle cause fondamentali dell’abrogazione dei voucher avvenuta lo scorso 17 Marzo. Questa abolizione improvvisa, per la quale non è stato contemplato un periodo transitorio, ha lasciato un grave vuoto normativo riguardo alla regolarizzazione del lavoro occasionale ed accessorio che, in una realtà particolare come quella italiana, rischia di essere premessa di ulteriore lavoro nero.

Molti i settori gettati nello scompiglio dalla scomparsa dei buoni lavoro: l’agricoltura, il turismo, lo stewarding delle manifestazioni culturali e persino i pubblici servizi (colf/ badanti, insegnanti, lavoratori agricoli, guardiani e camerieri sono stati infatti costanti beneficiari di questo sistema) si son trovati improvvisamente sprovvisti di un istituto che tutelasse il lavoro occasionale. Tale lacuna è da considerarsi ancor più preoccupante in vista delle assunzioni stagionali dell’estate 2017 per cui si attendono chiare risoluzioni in merito alle modalità sostitutive atte a salvaguardare quegli episodi lavorativi che altrimenti potrebbero essere causa di lavoro sommerso.

Le risposte del Governo in merito alla formulazione di strumenti diversificati che soddisfino le esigenze eterogenee del lavoro occasionale sono però ancora troppo indefinite. L’incontro tra Governo e parti sociali sembra essersi comunque risolto nella volontà di formulare una nuova normativa entro il 15 maggio da mettere a disposizione di famiglie e piccole imprese.
Le alternative vagliate dal Governo per l’impiego occasionale sarebbero rappresentate dall’istituzione di buoni famiglia destinati, per l’appunto, alle famiglie e la riformulazione del contratto a chiamata per quanto concerne le imprese.

Il “contratto a chiamata” (altresì detto- “job on call” o “contratto a intermittenza”) è un istituto introdotto nel 2003 e poi modificato dal Jobs act. Le differenze tra contratto a chiamata e voucher sono molteplici: innanzitutto il contratto a chiamata, ad oggi, è applicabile solo a lavoratori con età inferiore ai 25 anni e superiore ai 55, comporta costi maggiori per le aziende a fronte dei 10 euro nominali dei voucher e prevede l’obbligo di assunzione con contratto stabile (full-time e a tempo indeterminato) nel caso in cui il lavoratore assunto superi le 400 giornate lavorative nell’arco di tre anni solari ( fatta eccezione per i settori del turismo, dello spettacolo e dei pubblici esercizi).

Alla luce dei vari limiti che il contratto a chiamata attualmente prevede, la totale rielaborazione e semplificazione di tale istituto diventa un’urgenza affinché diventi uno strumento efficace e funzionale che miri alla politica dell’occupazione e del mercato del lavoro per quelle mansioni che, con i voucher, venivano tutelate senza discriminazioni. Le intenzioni del Governo in merito sembrano essere quelle, appunto, di mantenere il tetto massimo delle 400 giornate lavorative dopo le quali vige l’obbligo di assunzione del lavoratore mentre ci sarebbe l’intenzione di istituire il lavoro a chiamata per tutti, senza alcun vincolo d’età.

Restano tuttavia perplessità in merito alla reale efficacia di questo istituto: il contratto a intermittenza potrebbe comunque rappresentare , infatti, uno specchio per le allodole in quanto, dati i presupposti attuali, non prevede alcuna tracciabilità del rapporto di lavoro per ciò che concerne i termini delle prestazioni lavorative e, comunque, comporta una spesa sensibilmente maggiore da parte dell’azienda che assume il lavoratore. Qualora il contratto a chiamata rappresenti la reale alternativa al voucher risulta improrogabile un restyling completo dell’istituto.
Nella ricerca di una valida soluzione, occorre che il Governo tenga ben presente la necessità di una celere definizione di una alternativa che risponda ai criteri di flessibilità, immediata fruibilità, semplice applicabilità e trasparente tracciabilità dello strumento contrattuale che si intenderà utilizzare per scongiurare il pericolo che alcuni rapporti lavorativi finiscano con il risolversi illegalmente a discapito della tutela dei lavoratori.